I 70 anni di Gigi Riva

I 70 anni di Gigi Riva

Sono 70 gli anni di Gigi Riva, nato a Leggiuno il 7 novembre del ’44. Settanta, quasi a richiamare l’anno dello scudetto e del mondiale messicano, la stagione forse più importante della sua carriera sportiva, indissolubilmente legata a due maglie: quella rossoblù (anche se allora era più di frequente bianca) del Cagliari e quella azzurra della Nazionale. Abbiamo scelto, per celebrarlo, un formato particolare: quattro Gigi Riva diversi, quattro momenti di una carriera indimenticabile, quattro aspetti di una personalità che lo ha fatto amare almeno quanto le doti di calciatore.

di @JFGrass

Ul furzelina.
A fine anni ’50, dopo un’infanzia segnata dalla perdita del padre e dai passaggi di collegio in collegio nel varesino e non solo, il quattordicenne Riva trova lavoro in un’officina e nel tempo libero gioca in tornei di calcio locali, dove il suo tiro potente e l’abbondante numero di gol iniziano a farsi notare, e dove i suoi compagni del tempo, per via delle sue gambe arcuate “a forcella” gli affibbiano il soprannome di Furzelina. Dopo la perdita della madre l’approdo al Legnano in serie C e le prime convocazioni nelle Nazionali giovanili, gli fanno prendere coscienza che del pallone possa fare un mestiere. Andrea Arrica era allora un giovane dirigente del Cagliari che quel giorno di marzo del 1963 si trovava nella tribuna dello Stadio Olimpico per seguire la sfida tra le nazionali juniores di Italia e Spagna. Gli bastarono pochi minuti per dar ragione a chi gli aveva segnalato quel numero 11 mingherlino ma con un gran bel sinistro, e così, con la prima di tante sue felici intuizioni, nell’intervallo presentò al presidente del Legnano Caccia un’offerta da 37 milioni. Offerta quanto mai tempestiva perché Riva, ignaro di tutto, nel secondo tempo realizza la rete della vittoria, spingendo il presidente del Bologna, Dall’Ara, ad un tardivo e inutile rilancio.

Al rientro da quell’incontro, Riva apprende di essere stato ceduto. Spera la destinazione sia l’Inter, o lo stesso Bologna, e quando il suo allenatore Luciano Lupi gli dice “Cagliari” lui non ne vuole sapere, e testardamente arriva a minacciare di preferire un anno di inattività. Gli strappano comunque la promessa di una visita di qualche giorno in Sardegna prima di decidere. Le immagini che il nome dell’isola allora evocava erano ben diverse da quelle odierne. Il turismo di massa doveva ancora scoprirla, e la Costa Smeralda era appena un progetto su carta, mentre “Ti sbatto in Sardegna” era la minaccia principe per funzionari e ufficiali da punire. In tempi di emigrazione a due cifre, la gioia era poter festeggiare i primissimi anni senza malaria, coi portoni delle case ancora a recare le date in cui il Ddt era stato spruzzato dentro le abitazioni. Fu con questi occhi che Riva ebbe a sentenziare “Ma quella è l’Africa!” alla vista delle luci del capoluogo, prima dell’atterraggio del turboelica che da Milano, via Genova e Alghero, lo avrebbe portato per la prima volta nella sua futura casa. Superato l’impatto iniziale, la sintonia coi nuovi compagni e l’allenatore Silvestri, nel quale scoprì il proverbiale secondo padre, e la prospettiva di cimentarsi con la Serie B, lo convincono a fermarsi. La squadra, anche grazie ai suoi 8 gol, arriva seconda appena dietro al Varese e ottiene la promozione in Serie A, per la prima volta nella storia.

Giggirriva.
Quando arriva in Serie A, Riva si è ormai ben ambientato e vive nella foresteria con gli altri scapoli della squadra. A Martiradonna e Greatti, partiti con lui dalla B, si aggiungono Nené dalla Juventus (dove lo avevano preso per un attaccante) e Cera, vero e proprio allenatore in campo, per una stagione d’esordio che varrà il sesto posto finale, risultato raggiunto solo da Parma e Chievo nei 50 anni successivi. Cagliari e la Sardegna si appassionano come mai prima al calcio, ma questo enorme entusiasmo non può sopperire a tutte le difficoltà logistiche ed economiche che un campionato di alto livello poneva in quegli anni. Per quanto possa sembrare anacronistico, non potendo per ovvi motivi fare le trasferte in treno o in pullman, la squadra dovette inizialmente viaggiare in nave, e per anni il Cagliari alternò sul calendario due gare in casa con delle doppie trasferte, che risultavano meno stressanti e più economiche. Negli stadi di tutta la penisola il Cagliari veniva seguito da centinaia di sardi immigrati e da semplici appassionati, per i quali questa realtà calcistica rappresentava la “squadra simpatia” del campionato. L’ambiente familiare, l’entusiasmo che lo circondava e i risultati che iniziavano ad arrivare, contribuirono a cementare un gruppo ai quali vennero via via aggiunte nuove e promettenti tessere, come Niccolai e Boninsegna. Quanto a Riva, nel frattempo ha già vestito in un paio di occasioni la maglia della Nazionale, e nel 1966 è stato aggregato, ma fuori formazione e per fare esperienza, alla sfortunata spedizione per il mondiale inglese. La stagione successiva risulterà per lui cruciale sotto diversi aspetti. Silvestri, passato al Milan, viene sostituito in panchina da Scopigno. Riva, pur saltando tutte le ultime 9 gare a seguito di un infortunio alla gamba sinistra nella prima da titolare in azzurro, vince per la prima volta la classifica dei marcatori con 18 reti. Per il Cagliari arriverà un altro sesto posto (era quarto fino all’infortunio del suo cannoniere), ma stavolta la distanza dalle grandi si può dire legittimamente ridotta. Per problemi economici dovuti alle riforme dei campionati, Riva rischia per la prima volta di venire ceduto, ed è il Napoli a presentarsi con un’offerta di 400 milioni. Solo l’intervento di capitali esterni (tra cui anche quelli del rivale Angelo Moratti, in un caso di “conflitto d’interessi” signorilmente d’altri tempi ) riesce a scongiurare l’infausta eventualità. Dopo la curiosa parentesi americana con i Chicago Mustangs e una stagione non troppo esaltante con in panchina Puricelli, Riva si toglie la soddisfazione di segnare il primo dei due gol alla Jugoslavia nella finale dell’Europeo, che l’Italia conquisterà per la prima e sinora unica volta. Ha solo 23 anni e il suo score in Nazionale è già scintillante: 7 gol in 7 presenze.

Avevamo lasciato il signor Arrica (ormai si sarà capito, vero deus ex machina della società) sulla tribuna dell’Olimpico; ora leggenda vuole che lo si ritrovi a un tavolo di ristorante con Nello Baglini, presidente della Fiorentina. A quel tavolo si sarebbe di lì a poco (in termini di tempo, ma molto in termini di alcol nel bicchiere del signor Baglini) consumato un affare che dovrebbe far alzare in piedi ed applaudire chiunque abbia mai partecipato ad una lega di fantacalcio tra amici. Quando Baglini l’indomani tornò in sé, Arrica era ormai in possesso di una dichiarazione firmata, che l’ortodossia alla leggenda collocherebbe su un tovagliolo, dove si certificava che il Cagliari avrebbe ricevuto dalla Fiorentina Albertosi (portiere che contendeva a Zoff la porta della Nazionale) e Brugnera in cambio del solo Rizzo. Il presidente della Viola onorevolmente mantenne la parola, facendo sì che lo scambio avesse luogo. Il tempo delle trasferte doppie è finito e ormai si prende l’aereo, perché quella consegnata al rientrante Scopigno è una squadra che punta allo scudetto. Stavolta il Cagliari sarà campione d’inverno, ma nonostante i 20 gol di Riva (ancora capocannoniere) subirà la rimonta proprio della Fiorentina, che vincerà il titolo in volata. Da parte sua Gigi Riva è ormai diventato il centravanti dell’Italia, una figura di spessore internazionale e pur non avendo la vetrina delle coppe europee, stabilmente in lizza per il Pallone d’Oro.

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Rombo di tuono.
Lo sfortunato epilogo del campionato rese ancora più determinati i rossoblù, a cui Arrica consegnò dall’Inter il trio Domenghini, Gori e Poli, anche se questo significò dover rinunciare a Roberto Boninsegna. La stagione è trionfale e uno dei pochi brividi arriva quando alla prima di ritorno si fa male Tomasini, libero titolare cui Valcareggi aveva già promesso un biglietto per i mondiali. Scopigno arretra Cera, schierando i 4 difensori praticamente in linea: una vera novità per l’epoca. La difesa si riassesta e a fine campionato sarà la meno battuta con soli 11 gol subiti. La partita che segna il campionato è un palpitante 2-2 con la Juventus, per la quale Torino viene invasa da sardi provenienti da mezza Europa. Superato anche quell’ostacolo, il Cagliari riprende la sua marcia inarrestabile e vince il titolo con due giornate di anticipo. Il miracolo si era compiuto, i “pecorai” urlati come insulto, dimenticati. Quel giorno Cagliari si proclama di diritto Capitale del Calcio. Dopo la storica festa scudetto, al mondiale messicano Riva si presenta da stella assoluta e l’Italia (con ben 6 giocatori rossoblù) da seria candidata alla vittoria. La squadra viene fuori nei quarti di finale, dominati contro il Messico padrone di casa per 4-1 con doppietta di Riva, che poi contribuirà alla “partita del secolo” con lo splendido diagonale mancino del provvisorio 3-2 alla Germania Ovest. Nella finale la fatica di recuperare in altura e la inarrivata qualità tecnica degli avversari faranno sì che la Coppa Rimet se la porti (letteralmente) via il Brasile di Pelé, probabilmente la nazionale più forte di sempre.

In un giorno di fine ottobre Riva si trova a Vienna con la Nazionale, e il mercurio sul suo termometro sale e scende, così la sua presenza in quella prima gara di qualificazione all’Europeo 1972 resta in dubbio. Manca qualche giorno al suo ventiseiesimo compleanno e il campione è in piena ascesa: la nuova stagione è iniziata alla grande e il Cagliari con lo scudetto sul petto è già in testa alla classifica dopo l’impressionante dimostrazione di forza di pochi giorni prima: 3-1 all’Inter a San Siro, con una sua doppietta in appena 20 minuti, e sul 3-0 la richiesta di Mazzola di non infierire. Fu proprio a seguito di quell’incontro che Gianni Brera coniò per lui Rombo di tuono, il suo soprannome più famoso. Inoltre grazie ai suoi 3 gol in 3 gare in Coppa dei Campioni, il Cagliari viaggia verso i quarti di finale, in palio il mercoledì successivo nel ritorno contro i campioni di Spagna dell’Atletico di Madrid, già sconfitti a Cagliari all’andata. E potrebbe essere anche la volta buona per conquistare il Pallone d’Oro, dopo che nel 1969 era stata una questione tutta italiana tra lui e Rivera, con l’Abatino (per penna ancora di Brera) a prevalere d’un soffio, forte proprio del trionfo in Coppa dei Campioni col Milan. Alla fine il commissario tecnico Valcareggi sceglie di non privarsi del miglior cannoniere azzurro (22 gol in 23 presenze) schierandolo come punta. L’Italia conduce 2-1 quando sulla trequarti Domenghini evita l’avversario e passa a Riva, che andando verso destra sposta il pallone. E’ un attimo: Hof lo travolge da dietro, Riva è a terra, si tiene la gamba con una smorfia di dolore. A spezzarsi stavolta è il perone destro, con distaccamento dei legamenti della caviglia. Un colpo durissimo per il Cagliari, che uscirà dalla Coppa e perderà rapidamente terreno in campionato, chiuso al settimo posto. La stagione successiva vedrà un buon Cagliari lottare ancora fino all’ultimo e Riva superare i 20 gol, ma è come se quella sera di Vienna fosse stato il vertice di una linea non ancora pronta per scoprirsi parabola. Il successivo addio di Scopigno segnerà la definitiva chiusura di un ciclo, lasciando il Cagliari a delle stagioni da lato destro della classifica, fino all’ultimo e definitivo infortunio di Riva, che chiuderà la sua carriera e costringerà il Cagliari alla Serie B.

ItaBra70

Hombre vertical.
Avrebbe potuto continuare a giocare, ma scelse di smettere. Quando la vita inizia a quel modo, terminare la carriera non può essere una tragedia, neppure a 32 anni. Fisicamente non si era mai risparmiato, perché mettere la gamba avanti senza paura, faceva parte del suo calcio. È così che si era infortunato nel ’67 contro il Portogallo, con la gamba protesa fino all’ultimo, travolto dal portiere. Lo stesso intervento di Hof a Vienna, che oggi sarebbe da cartellino rosso diretto senza discussioni, ma allora neanche giallo, gli fece semplicemente dire “cose che capitano”. Anche per queste cose non si riconosce più in questo calcio dove si fischiano le maglie pizzicate, dove simulare o accentuare porta spesso più frutti. In questo calcio non sarebbe probabilmente possibile neanche costruire in provincia una squadra come quel Cagliari, i cui meriti – va detto – non si fermarono ai risultati sportivi.

Quella squadra fece apparire l’isola sulla mappa, sportiva e non: a Cagliari vennero a giocare in amichevole il Benfica di Eusebio, la Dinamo Mosca di Yashin e, in due riprese, il Santos di Pelé (memorabile un 2-3 in pieno campionato, con 2 gol di O’Rei e 2 di Riva, rimasto in campo nel solo primo tempo, chiuso sul 2-1 isolano). Quella squadra cominciò a vincere quando fece sentire adottato da tutta la città il giovanissimo e scettico Riva, circondato da quell’amore che non si dà perché dovuto, che ti fa sentire a casa in un posto così lontano da casa. Attorno a lui crebbe quel gruppo di compagni dove gli scapoli vivevano tutti nello stesso condominio, e l’abbraccio divenne quello di una regione intera, che la domenica mattina invadeva coi pullman il capoluogo da ogni estremità dell’isola per poi andare a riempire di famiglie lo stadio. In quel Cagliari apparentemente non c’era nessun sardo (per assurdo nella gara-scudetto l’unico sardo in campo era nel Bari), ma in realtà lo erano diventati tutti. Riva negli anni ricevette offerte dal Milan, dall’Inter e la più famosa da parte della Juve: un miliardo più 7 giocatori tra cui Bettega e Cuccureddu, ma anche a fronte di guadagni più che doppi, si impose con la società perché ormai aveva deciso che non si sarebbe mai più mosso. Anche Tomasini nel proprio infortunio arrivò a vedere, in senso positivo, la garanzia di poter rimanere a Cagliari, dove ancora vive dopo più di 40 anni, come pure il brasiliano Nené.

La più grande vittoria di Riva, e di quella squadra, fu cambiare la percezione di una terra, mostrando che una volta scoperta non la si poteva abbandonare. E come loro fecero tante persone comuni arrivate dal continente, e artisti come Fabrizio De André.

C’era un grande attaccamento ma senza la pressione di altre città, una passione non isterica, vissuta anche da chi il calcio non lo seguiva, e che ancora si può trovare in quell’adorazione rispettosa di cui godono tuttora Gigi Riva e gli altri protagonisti dello scudetto. Eterna ricompensa per quella rivalsa gioiosa, ormai patrimonio anche di chi allora non c’era. Perché se è vero che nessun uomo è un’isola, in quelle domeniche un’intera isola si identificava in un uomo.



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