Era da tempo nell’aria e oggi arriva l’ufficialità: la FIGC ...
Thierry Henry ieri ha giocato la sua ultima partita alla Red Bull Arena, concludendo il suo contratto con i Red Bulls newyorkesi. Continuerà a giocare Titì? Tornerà in Europa? Noi sappiamo che “del doman non vi è certezza”, quindi ci limitiamo a tirare una riga per delimitare tutto quello che ha fatto fino a qui. Poi si vedrà.
Non è più un giovane di primo pelo Henry, solo tre anni lo separano dai quaranta, ma il talento puro (e una grande ambizione) ci hanno abituato a tutto. Un esempio? Il rientro all’Emirates nel 2012, a consolidare quella prassi che vuole che i giocatori impegnati in MLS vadano ad allenarsi – e spesso a giocare – nei campionati europei: non c’è bisogno di spiegarlo ai tifosi Blues che oggi piangono Frankie Lampard in maglia citizen, o ai tifosi milanisti ieri stregati dalla classe di David Beckham.
Di classe il numero 14 ne ha sempre avuta da vendere. Già adesso è un’icona. Una statua lo ritrae fuori dallo stadio dell’Arsenal, fermata Holloway Road, unico francese commemorato tra le leggende raffigurate fuori dall’arena londinese (gli altri sono Tony Adams e Herbert Chapman, vere e proprie icone dei rossi di Londra). Henry è in ginocchio per terra e grida, un’esultanza gioiosa e scomposta, a Highbury, dopo un goal da antologia nel derby più sentito per la tifoseria, quello contro il Tottenham, Novembre 2002.
Genio, talento, perfezionismo. In otto anni 226 reti (miglior marcatore di sempre della storia dei Gunners), rimane il simbolo della squadra degli Invincibili, l’Arsenal imbattuto del 2003/2004, nonostante intorno a lui ci fossero altri maestri di altissimo livello. Lui è l’uomo che ha contribuito a questa cavalcata più di ogni altro, ed è anche la prima intuizione del curriculum di Arsene Wenger, riuscito dove Carlo Ancelotti, alla Juve, aveva fallito. In un recente bilancio della propria carriera, l’allenatore del Real ha affermato che il suo più grande rimpianto sia quello di non aver compreso l’attaccante francese. Carletto avrebbe dovuto fare come ha fatto poi Arsène: reinventarlo. L’alsaziano gli ha insegnato, come dice il 14 parigino, tutto quello che serve per fare l’attaccante. Prima punta atipica, modernissima, con un fisico da ala, una tecnica da numero 10 e una visione straordinaria, oltre che rapidissimo e imbattibile nell’uno contro uno.
L’amore dei tifosi della squadra londinese è sempre stato ricambiato: Henry ha ammesso di aver pianto lasciando Emirates per l’ultima volta, e quando la statua è stata svelata: “Once a Gooner, forever a Gooner” ha detto, togliendosi la maglia di “Gunner” ovvero cannone, il soprannome dato ai calciatori, e vestendo i panni del “Gooner” appunto, il tifoso. Meravigliose sottigliezze per veri nerds.
I romantici sogneranno un ritorno a Emirates: come vice di Wenger oppure, why not?, come giocatore. Lui ha già dichiarato che senza calcio non può vivere, il ruolo non conta, quindi vale tutto. In una recente intervista a l’Equipe (che ha dedicato uno speciale di cento pagine al suo imminente ritiro) ha detto che sogna un Arsenal vincitore della Champions League, con lui nel club o meno: come sempre, la squadra prima di tutto.
Rimane da chiedersi come sia possibile che un giocatore che ha vinto tutto in carriera non si sia portato a casa il Pallone d’Oro. In Inghilterra: due Premier, tre Coppe d’Inghilterra, tre Supercoppe. In Francia: una Coppa del Mondo, un Europeo e una Confederations Cup con i Bleus, una Ligue 1 con il Monaco. In Spagna: una Champions, una Supercoppa Europea, due volte campione del Mondo per Club, due titoli spagnoli, una Coppa e due Supercoppe di lega.
Ciò che resta, scolpito nel bronzo, è quella scivolata sul campo verde di Highbury, immortalata in un urlo di gioia. Au revoir Titì, rien ne va plus, forse.