Una birra con… Carlo Pizzigoni

Una birra con… Carlo Pizzigoni

Carlo Pizzigoni è nato e vive a Pero, nella periferia milanese. Di solito è in giro a vedere cose, specie di calcio, specie in Sudamerica, subcontinente che ha attraversato da Cartagena ad Ushuaia. Ha visto, sul posto, diversi Mondiali giovanili, un paio di coppe d’Africa e vissuto l’emozione unica della Coppa del Mondo 2014 in Brasile. È autore di tutti gli #SkyBuffaRacconta.

Ha fondato MondoFutbol.com, primo sito di calcio internazionale in italiano, collabora con Sky Sport, ha scritto per La Gazzetta dello Sport, Guerin Sportivo e per il quotidiano svizzero Giornale del Popolo. Per Sperling ha pubblicato “Storie Mondiali”, scritto a quattro mani con Federico Buffa. Sta preparando un altro libro sulla storia del calcio sudamericano.

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Carlo, quando hai deciso di intraprendere il tuo mestiere?
Io sono convinto che non siamo noi a scegliere la nostra squadra del cuore, ma è lei a scegliere noi e penso che per il lavoro valga lo stesso. Mi ricordo che alle scuole elementari dicevo sempre di voler fare il giornalista di guerra, poi il calcio è diventata una passione maniacale fino al punto di arrivare a coincidere con la mia professione. È una passione fortissima, talmente forte da rischiare di mangiarti la vita in alcuni casi. Togli tanto tempo a chi ti sta vicino, a chi ti vuole bene. Sento che non è giusto.

A proposito di squadra del cuore, per chi fai il tifo?
Io sono interista, ma non sopporto l’interismo nato negli ultimi venti anni. Col tempo, devo ammettere che la mia passione per il calcio ha preso il sopravvento sul tifo vero e proprio. Seguo la prima squadra, ma anche i giovani: vado spesso ad Interello, seguo dai Giovanissimi nazionali e mi faccio informare sui più piccoli. Ma Inter o non Inter, faccio mia la frase di Eduardo Galeano: Non sono altro che un mendicante del buon futbol (adoro scriverlo così, perché il calcio come lo conosciamo oggi, nasce in Sudamerica), vado negli stadi di tutto il mondo a elemosinare una bella giocata. E quando ciò accade, sono contento e ringrazio idealmente chi me l’ha fornita, senza interessarmi davvero chi o quale squadre me l’ha offerta. Rendo grazie. Altrimenti non potrei fare questo lavoro, starei da qualche parte a fare il tifo.

Da cosa deriva la tua passione per l’Inter?
L’attaccamento alla maglia nerazzurra mi è stato tramandato da mio padre. Ora purtroppo non c’è più e mi spiace davvero che non abbia potuto vedere l’Inter del 2010. È lui che mi ha portato per la prima volta allo stadio.

Volevamo proprio chiederti della tua prima partita allo stadio. Chi c’era in campo?
Non ricordo con precisione la partita perché ero davvero piccolo, ma era verso la fine degli Anni 70. L’atmosfera di San Siro – quando ancora non c’era il terzo anello – però non la dimenticherò mai.

Prima hai menzionato l’interismo. Cosa intendevi?
Io credo che nell’interista, quello vero, ci sia qualcosa di speciale. Con il passare degli anni però ho notato sempre di più una deriva legata a gran parte dei tifosi nerazzurri: il tifo becero da stadio. Non sopporto quando si insultano i giocatori in maniera ossessiva, spesso senza motivi reali. È una cosa che mi dà proprio fastidio, non ne capisco il motivo. Criticare è una cosa, ma insultare è ingiustificabile. E questo è un aspetto che caratterizza molti degli attuali interisti. Per fare un esempio, tutti coloro che adesso voglio che Simeone alleni l’Inter sono gli stessi che nei primi mesi l’hanno insultato ogni volta che scendeva in campo con l’Inter a San Siro.

Approfittiamo del tuo assist: tu sei pro o contro il Cholismo?
A me piace Simeone, ma se mi chiedete chi è il migliore allenatore del mondo vi rispondo Guardiola. Se uno è capace di cambiare la mentalità del Bayern Monaco in due mesi, dovendo gestire giocatori che hanno vinto tutto, significa che è davvero unico. Simeone ha ottenuto risultati incredibili con l’Atletico, ma non dimentichiamoci che il Calderon è casa sua. I tifosi colchoneros sanno che il loro allenatore scende in campo per loro perché solo lui può comprendere quanto abbiano sofferto vedendo il Real vincere sempre – compresa l’ultima finale – Il Cholo è uno di loro: si è guadagnato tutto col suo lavoro. Se riuscisse a imporre il Cholismo (odio questo termine, e gli “ismi” in particolare, ma giusto per capirsi) anche in un’altra grande realtà, ci troveremmo di fronte a qualcosa di ancora più straordinario.

Torniamo al tuo lavoro: come hai conosciuto Federico Buffa?
Premessa: io da piccolo giocavo a pallacanestro, non a calcio. Per questa ragione, seguivo tutte le cose che faceva Buffa. Una volta vado al cinema con la mia ragazza di allora a vedere un film di Takeshi Kitano e, pochi minuti prima dell’inizio della pellicola, lo vedo entrare in sala. Durante l’intervallo mi precipito da lui e mi presento dicendogli che mi sarebbe piaciuto poter collaborare insieme. Dato che ero solo, mi invitò a guardare il film con lui, ma, nonostante fossi tentatissimo, dovetti tornare dalla mia ragazza. Più avanti lo intervistai telefonicamente e a un certo punto, non so perché, ci trovammo a parlare nei dettagli del lavoro di Fernando Santos (oggi Ct lusitano), colui che ha costruito le fortune del Porto prima dell’arrivo di Mourinho. Lui rimase molto colpito e, dopo l’intervista, decidemmo di rimanere in contatto. Più avanti producemmo il nostro primo lavoro insieme, decisamente carbonaro: la storia di Maradona.

Com’è lavorare con Buffa?
È sempre un’esperienza speciale, unica: un privilegio. Federico nella vita è esattamente come lo vedi in televisione: quando inizia un discorso che lo appassiona diventa un fiume in piena. È un genio con una capacità innata di raccontare e, allo stesso tempo, una persona buona e sensibile, sa ascoltare, comprendere. In molti tentano di imitarlo, ma la sua professionalità e la sua curiosità, le rivedo solo in Daniele Adani. Sono della stessa pasta.

Nonostante il tuo amore per il calcio, hai sempre giocato a basket, giusto?
Sì, è così, mi sono innamorato subito della pallacanestro. Durante la settimana giocavo a basket e la domenica andavo a San Siro. Ho portato avanti entrambe le passioni, ma il calcio è sempre stato il mio sport preferito, anche se lo non praticavo con regolarità. Mi è sempre piaciuto anche il suo coté internazionale, siamo tutti figli del Guerin Sportivo. Per me fu un onore iniziare a collaborare proprio lì: c’era Aloi direttore.

Secondo quello che ci hai detto, sarebbero le squadre a scegliere il tifoso e non viceversa. Seguendo questo ragionamento, a quali squadre sei rimasto affezionato?
Spesso mi è capitato di iniziare a simpatizzare squadre legate ai luoghi in cui sono stato. Per esempio, in Argentina incontrai un tassista che mi aiutò tantissimo. Dato che al tempo la situazione economica era molto difficile, gli promisi di inviargli del denaro dall’Italia, ma lui lo rifiutò dicendomi: «Non ti preoccupare, a me basta che tu sostenga sempre il Racing». La cosa mi ha talmente commosso che da allora sono diventato un tifoso dell’Academia. Lo stesso mi successe in Brasile con il Vasco da Gama. Conobbi un frate che mi ospitò e mi propose un piatto di riso e fagioli al giorno, in cambio di aiuto. Si occupava di ragazzi disagiati. Mi rimase nel cuore e, con lui, anche il Vasco, di cui era un grande tifoso. Poi, più avanti, scoprii anche che il Vasco contribuì nel corso della sua storia ad abbattere le barriere razziali nella società brasiliana: un aspetto che si legava perfettamente alla mia personalità.

Qual è invece lo stadio che ti ha regalato le emozioni più grandi?
Dopo San Siro, che per me resta il più bello, lo stadio che ho frequentato di più è il Sankt Jakob a Basilea, vado spesso con colleghi ticinesi, bravissimi peraltro, a vedere la nazionale rossocrociata. Quello però che mi ha emozionato di più è il São Januário, lo stadio del Vasco da Gama. È un impianto degli Anni 20, l’unico ad aver ancora le panchine dietro la porta. Quando sei dentro, ti sembra di incontrare la storia. L’ultima volta l’ho visitato insieme a Federico Buffa, Daniele Adani e Marco Cattaneo per fare uno speciale sul Vasco per Sky Sport: sono orgoglioso di averli portati lì e di avere fatto un po’ conoscere la storia di questa favolosa squadra.

Altri stadi a cui sei rimasto legato?
Ogni stadio offre una sensazione diversa. Prendete il Maracanà: sono entrato sia in quello nuovo sia in quello vecchio, ma non c’è paragone. Ora è un altro stadio. Un altro impianto impressionante è il Gigante de Arroyito, lo stadio del Rosario Central. Lì i cori non vengono cantati solo dalla curva, ma da tutto il pubblico. Ci sono entrato la prima volta in occasione di Central-Palmeiras (Copa Libertadores). Insieme a me c’era anche Buffa: appena lo stadio ha iniziato a cantare, non volevamo crederci. È un’atmosfera inimitabile condivisa da tutti: dai bambini di cinque anni fino ai più anziani. Questa è l’Argentina. Ricordo con affetto il piccolo stadio di Monastir, in Tunisia. Ci arrivai in un taxi collettivo, una esperienza unica, per una partita unica: Camerun-Nigeria, Eto’o contro Jay-Jay Okocha. Vinse il più grande, Jay-JayJ, in una delle prestazioni individuali più incredibili che mi siano capitate sotto gli occhi. Voglio pensare che, sostanzialmente, fu il suo addio. E io avevo avuto il privilegio di viverlo, al massimo livello. Poi la corsa della sua Nigeria si interruppe contro la Tunisia, ma quel giorno a Monastir fu unico. Come unico fu, al Velodrome, il momento in cui Marcelo Bielsa, l’allenatore che amo di più, si dimise, dopo un OM-Caen. Mi decisi all’ultimo di andare a vedere il match, una forza oscura ma buona mi ha trascinato lì. Era a tre metri da me, fu davvero forte. Un grande, il Loco

Tra tutte le tue trasferte, c’è un episodio singolare che hai piacere di condividere?
Vi racconto questo: nel 2004 mi accreditai per vedere una sfida di Copa do Brasil al Maracanà. Visto che non ci ero mai andato prima, arrivai con 40 minuti di anticipo per sicurezza. C’era solo un piccolo problema: il mio nome risultava in lista, ma non mi era permesso entrare allo stadio. Il motivo? Dopo il Maracanazo, per accedere alla tribuna stampa, bisognava avere i pantaloni lunghi e io naturalmente indossavo quelli corti. Alla fine, dopo lunghe trattative riuscii a convincerli, non so come, a farmi sedere in piccionaia: promisi di non muovermi e che sarei uscito per ultimo. Anche queste piccole cose ti fanno percepire l’anima di ogni stadio e la storia dei club a cui appartengono.

Passiamo al nostro lato Nerd: esclusa quella dell’Inter, c’è una maglia a cui tieni in particolare?
Ricordo una maglia dell’Aston Villa degli Anni 80: la sceglievo sempre quando giocavo a Subbuteo. Sono legato a quella divisa anche perché da ragazzo ho vissuto due settimane a Birmingham ospite di una famiglia italiana. Alla fine del soggiorno, il padre mi confessò di essersi ammalato a causa del lavoro che svolgeva in gioventù, in una fabbrica chimica, senza protezioni di alcun tipo. Per questa ragione, quei colori mi rimarranno sempre nel cuore. Devo ammettere che subisco il fascino del calcio inglese meno di tanti altri, riconoscendogli tuttavia un ruolo chiave. Io comunque continuo a stare con Jimmy Hogan.

Rimanendo nel mondo delle maglie, hai qualche altra chicca per noi?
Sì, direi di sì. Per qualche anno un ragazzo ivoriano ha vissuto a casa mia e io e la mia famiglia abbiamo cercato di fare il massimo per aiutarlo. Quando se ne è andato, mi ha regalato la maglia dell’ASEC Abidjan: nell’accademia di questo club è cresciuta la generazione moderna del calcio ivoriano. È una maglia unica e molto rara: gialla con delle mimose nello stemma. Ci sono talmente affezionato da essere andato ad Abidjan per visitare il campo dove si allena la squadra. Lì ho conosciuto la storia di Jean-Marc Guillou, un genio assoluto. Ha sempre visto il calcio solo secondo un punto di vista particolare, anche se poi si è scontrato proprio con quella società. Una storia amara. È merito suo se la Costa d’Avorio ha potuto contare su così tanti grandi giocatori negli ultimi anni. E’ un posto unico, Sol Beni.

Chiudiamo con i protagonisti in campo: chi sono i calciatori che hai amato di più?
Quando ero piccolo il mio primo idolo è stato Carlo Muraro: giocava nell’Inter, sfrecciava sulla fascia e, come se non bastasse, si chiamava come me. Poi mi sono innamorato di Zidane, sono andato persino nel suo quartiere a La Castellane, Marsiglia, per vedere dove è cresciuto. Zizou non è l’unico giocatore che ho invidiato alla Juventus: Tevez e Vidal li ho sempre adorati. In Italia, Totti è stato il mio giocatore preferito.

[A cura di @palmi14 – Foto: @clapaciello – Si ringrazia il Mind the Gap Milano]